Derek MF Di Fabio x Musei


Il 10 Febbraio 2020 sono state presentate con una performance nel cortile della scuola.




The game Deadlines and Dragons is an initiative of Common Places: new imaginaries for European peripheries, a project by Cherimus, LaFundició and Prostoroz that aims at sharing and reflecting on situated cultural practices that put play, conviviality and grassroots urban regeneration at the center to boost the autonomy and critical capacity of its residents to collectively build resistances and new imaginaries that break the stigmatization of peripheral territories.
Il primo concerto del nuovo gruppo Deggo Yëggo è appena finito e ancora sento sulla mia pelle tutti i graffi, i salti, i gesti, i colpi, il ritmo folle, tutta la forza buttata fuori di getto nel corso di otto canzoni. La magia è ancora sospesa per l’aria, siamo ancora tutti insieme nel cortile affollato di Kër Thiossane: la musica non si è mai interrotta del tutto, ci tiene ancora legati a sé, ci tiene forte. È bastata un’ora soltanto per veder fiorire Deggo Yëggo, tutti noi giù per terra e le stelle alte nel cielo, lo scorpione e il suo cuore, Antares, fulgenti.
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Tutto è cominciato cinque mesi fa, anzi, per essere precisi tutto ha avuto inizio otto anni fa. Qui, a Kër Thiossane, nel suo arioso cortile accarezzato dalle fronde di un immenso mango, è nata la band sardo-senegalese Chadal, che nel 2011 ha sparso i frutti del suo intenso rendez-vous musicale in una tournée che ha toccato il Senegal e l’Italia.
L’obiettivo di Chadal, progetto scritto da Cherimus e realizzato in partnership con Kër Thiossane, era di mettere in discussione la dinamica di isolamento e di marginalizzazione sociale che la comunità senegalese soffre in Italia e in Sardegna; a fronte di alcune importanti ma isolate iniziative di collaborazione e di scambio infatti la comunità senegalese è prevalentemente associata dalla maggior parte degli italiani allo svolgimento di lavori umili, spesso ai margini del mercato del lavoro. Anche artisticamente, la musica senegalese, così come quella sarda del resto, per il pubblico generalista italiano ed europeo è ancora largamente relegata a pochi e vecchi stereotipi che non rendono giustizia alla vitalità e ricchezza di una tradizione artistica e musicale antichissima che si perde nella notte dei tempi.
In questo e in tanto altro le due tradizioni musicali si somigliano e ricordo che sognavamo di poter vedere cosa sarebbe potuto capitare da un incontro tra musicisti sardi e senegalesi: la musica avrebbe potuto far emergere e amplificare una voce presente sul territorio ma di fatto esclusa e muta e questo attraverso un dialogo musicale tutto da inventare e costruire.
Il progetto Chadal ha portato alcuni musicisti sardi a confrontarsi direttamente con la complessità e la storia della musica senegalese. Ha creduto che questo incontro dovesse avvenire a Dakar, in Senegal, e che la musica andasse incisa lì, che la tournée di questa nuova collaborazione musicale avrebbe dovuto avere Dakar come prima data per poi volare in Sardegna e portare nella stesse piazze la comunità senegalese che da anni vive in Sardegna e quella sarda, a cantare e ballare insieme. La band è poi riuscita a contagiare con la sua energia anche la più numerosa comunità senegalese d’Italia, quella lombarda, in collaborazione con la quale il gruppo ha suonato con successo al festival del Carroponte di Sesto San Giovanni, chiudendo così il cerchio musicale cominciato a Dakar.
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Oggi, dalla stessa collaborazione tra Sardegna e Senegal, è nata la band Deggo Yëggo. Otto anni dopo Kër Thiossane, che in italiano vuol dire casa della tradizione, è la stessa casa accogliente di sempre, dove artisti e musicisti da tutto il mondo si incontrano e lavorano insieme, dove le tantissime realtà culturali di Dakar si danno appuntamento.
Gli obiettivi di Deggo Yëggo sono gli stessi del primo progetto, gli stessi, solo tremendamente più urgenti, più necessari nel periodo storico che stiamo vivendo. Il progetto mette la voce di nuovi talenti musicali al centro del discorso, e parlando di voce, mi riferisco specialmente a quella di Kalsoum, cantautrice senegalese nata e cresciuta artisticamente nei banlieue di Dakar: le parole di Deggo Yëggo sono le sue, sua la voce narrante.
Mentre stavo cominciando ad abbozzare questo testo, nei giorni precedenti il concerto, la musica di Deggo Yëggo, aveva già messo sottosopra la sala prove di Kër Thiossane, facendo sobbalzare anche me, lì seduto a pochi passi. Kalsoum cantava e danzava senza sosta circondata dagli altri musicisti del gruppo: Pape Diop e Pape Ndiaye, percussionisti dell’Orchestre National du Sénégal, Pierpaolo Vacca, organettista di Ovodda, nella regione sarda della Barbagia e Massimo Congiu, suonatore di launeddas di Quartu Sant’Elena, vicino a Cagliari. Descrivere la bellezza di quello che stava accadendo sotto i miei occhi, mi fa sentire inadeguato: la tama di Pape Ndiaye, ancorata alla spalla e così vicina al cuore: i suoi battiti sferzano l’aria, le sue scale minuziose corrono su e giù a perdifiato; l’organetto di Pierpaolo Vacca è un abbraccio ampio, generoso, che offre spazio, quanto ne serve e se ne vuole; le launeddas di Massimo Congiu sono vele cariche di vento forte, velocità e spinta continua; il sabar di Pape Diop àncora il flusso, tiene la musica, non la fa volare via. I musicisti del nuovo gruppo suonano in cerchio, si guardano, musica fatta con gli occhi, prendersi e lasciarsi, mai del tutto. La voce di Kalsoum si muove senza difficoltà in questo nuovo paesaggio di suoni, scuotendo tutto, un moto tellurico, ogni parola uno spigolo, un pezzo di corteccia, una radice, un sasso. Canta in Wolof, Diola, Inglese e Francese, canta e compone le parole insieme, carta e penna alla mano.
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La forza di un incontro riuscito si riverbera sempre velocemente tutt’intorno, come i cerchi attorno ad un sassolino lanciato nell’acqua immobile. Il nome Deggo Yëggo è uno di questi cerchi perfetti: è la traslitterazione di due parole che in italiano non trovano corrispondenza diretta, che abitano più sensi, che sfumano e scivolano via. Deggo vuol dire stare insieme, ascoltarsi, capirsi, essere in armonia, cosa non semplice e da non dare mai per scontata; Yëggo significa condivisione, dice Kalsoum, di una lotta quotidiana, significa prendere posizione insieme, schierarsi e agire per fare cambiare le cose. Deggo e Yëggo, armonia e azione, perché la musica è già azione, porta con sé messaggi e li mette in atto. La musica descrive il nostro rapporto con il mondo e mentre fa questo lo rifà daccapo, agisce.
Nello stesso spirito, il logo della band è nato da una collaborazione con la street artist e attivista Zenixx; Deggo Yëggo è una vera e propria tag composta da linee curve che si rincorrono all’infinito.
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Deggo Yëggo è anche il titolo della canzone scelta per aprire il concerto, un brano solare dove l’organetto di Pierpaolo disegna un motivo ballabile e imprendibile tanto il ritmo è serrato, che trascina l’intero gruppo in un crescendo di intensità che si scioglie di colpo solo alla fine. Tutto il pubblico è invitato con forza a unirsi alla festa. “Oüie con lacomì!”, canta Kalsoum in Diola, lingua del sud-est del Senegal, vieni qui con noi! “Fi deugeurna!”, continua in Wolof, Qui è forte!, “Deggo e Yëggo!” Insieme e in armonia! Così comincia tutto, inseguendo il moto folle, acrobatico, senza fine, dell’organetto di Pierpaolo Vacca.
In Maman, Kalsoum canta sul motivo dei Goccius sardi, l’antica melodia sarda utilizzata per intonare preghiere alla madonna e ai santi, così come per accompagnare canti profani o di protesta popolare come il celebre Procurad’e moderare. Kalsoum alterna canto e declamazione, mostrando la versatilità della sua voce, ci parla di sua madre e di sé stessa, celebra chi affronta una gravidanza, dà alla luce e cresce un bambino dando tutta sé stessa; la cantautrice mette al centro chi la società ancora squalifica, marginalizza e colonizza. La sua voce, graffia e sovverte questo ordine sociale, con rabbia ci trasmette il suo no all’umiliazione riservata a chi, dice Kalsoum, porta anche i presidenti e i potenti del mondo in grembo. La cantautrice reclama il suo diritto a prendersi cura di sua madre, di accudirla, diritto tradizionalmente appannaggio dei figli maschi.
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Music, introdotta da un motivo brillante dell’organetto di Pierpaolo Vacca, è un inno d’amore alla musica, la musica che, dice Kalsoum, permette alla sua voce di esistere e resistere, di esprimersi e farsi spazio, di abbracciare il mondo: “Music, I am alive!”, si ripete più volte nella canzone. Nel finale del brano la tama di Pape Ndiaye, chiama uno dopo l’altro gli strumenti a rispondere al suo richiamo intessendo una serie fulminea di botta e risposta: Music, una pluralità di voci che danzano insieme leggere.
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Touche pas là, comincia con le launeddas di Massimo Congiu, che fanno spiccare in volo il gruppo prima di lasciare il testimone alla voce di Kalsoum, una voce subito arrabbiata, ruvida. Kalsoum prende quasi a cazzotti con la voce e con gli occhi l’immaginario interlocutore della canzone, che si trova nel tunnel della droga, lo mette in guardia, non gli dà tregua, come se il tempo fosse agli sgoccioli. Il discorso si spezza, si flette, salta gli ostacoli, non si guarda indietro. È forse il pezzo con il ritmo più serrato di tutto l’album, il più insostenibile; toccata la massima tensione il nodo alla gola si scioglie, si ritorna a respirare, in un momento di puro lirismo, un dialogo tra le sole voce e launeddas, un lungo duetto, dove la rabbia si trasforma in preghiera sospesa, una lenta invocazione, un lamento rotto solo dalla ripresa del ritmo insostenibile della prima parte, reso ancora più fitto e inestricabile dalla tama di Pape Ndiaye, un crescendo strumentale fino alla fine.
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In Terrorisme, l’organetto effettato di Pierpaolo Vacca disegna uno spazio dilatato, morbido, dalla respirazione lentissima, le launeddas vi si adagiano. Kalsoum recita su questa base senza mai spingere troppo la voce, poi la tensione sale ed ecco un ampio declamato; è un dialogo senza interlocutore, poche domande secche, sorprese, preoccupate: Dove vai? Ti unisci a loro? Non c’è alcun futuro lì! ti promettono il paradiso, di morire martire, ma vogliono solo il potere, e solo la morte li fermerà, non li ascoltare, non li avvicinare! Costruisci il tuo avvenire nell’amore. La tama appare a tratti, piccole isole in un mare calmo, quasi immobile. Nella parte finale, la più lirica, Kalsoum canta, quasi un lamento, l’impossibilità di sovvertire lo stato delle cose.
Fethe Tundu è l’unico brano dell’album completamente strumentale, omaggio al ballo tondo sardo, diffuso in tutta l’isola. Il ritmo sérère del sabar di Pape Diop, così simile a quello del ballo sardo, non fa alcuna fatica a prendere parte alla danza e così quello della tama di Pape Ndiaye, insegue e impreziosisce la serratissima trama strumentale. Il pezzo offre un momento di pausa, ci sentiamo per un attimo nel bel mezzo di una piazza in festa.
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Il tema di Punk Priogu è una variazione della melodia tradizionale per launeddas Is Priorisseddas, che accompagna le feste annuali del santo partono nella Trexenta, e che prende il nome dalle Priorisseddas, le fanciulle che accompagnano nel corteo il priore e la priora, figure di riferimento di queste feste sarde. Su questo motivo nasce in un batter d’occhio il testo per mano di Kalsoum; dall’esperienza diretta della periferia di Dakar, dove è cresciuta la cantautrice, prende forma questo canto di resistenza, di lotta quotidiana per reclamare sé stessi, per non arrendersi al mondo che costantemente vuole sminuirti, come la pulce (Priogu) del titolo, controllarti, sfruttarti, buttarti via. Qui la pulce è punk, mette in scacco la musica la accelera fino a farla deragliare: si riprende sé stessa con forza. “Hard Life.”
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Thiow Li, il brusio della città, sotterraneo, passa di bocca in bocca, cresce, si diffonde, si moltiplica, si articola. “Thiow li, Thiow lì, Thiow lì,” la gente parla per strada, allo scoperto, il vento sta cambiando che cambia direzione, si prepara una tempesta, si prepara una rivoluzione: Uniamoci e agiamo insieme nella verità / Se vogliamo che il nostro paese fiorisca / Finitela con la gelosia e l’ipocrisia / Se vogliamo vincere agire insieme è più fruttuoso. È ancora Deggo Yëggo, armonia e azione, Kalsoum rappa, la tama segue la voce come un segugio, Kalsoum chiama, tama risponde, il quartiere le copre le spalle, cammina con lei, il brusio cresce, valica strade, supera confini. Uno stop and go, improvviso, e le voci della strada si fanno moltitudine: un crescendo dell’organetto di Pierpaolo Vacca e delle launeddas di Massimo Congiu rafforzato dalle percussioni di Pape Ndiaye, e di Pape Diop chiudono la canzone e l’album.
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ll primo concerto di Deggo Yëggo è appena finito, gli applausi sono alle spalle, la notte è appena cominciata, Dakar non ha mai smesso di cantare e ballare, per le strade, sui tetti, sulle spiagge, non ha mai smesso di protrarsi con forza nell’oceano, di arrivare il più lontano possibile a confrontarsi con il moto eterno dell’ignoto. La prossima volta che Deggo Yëggo salirà su un palco sarà in Sardegna, terra di siccità e tempeste, isola in mezzo al mare. Lassù nel mar Mediterraneo saremo ancora una volta, con forza, Deggo e Yëggo
Matteo Rubbi, giugno 2019
Foto di copertina: Umberto Santoro
“Sono arrivati! Vieni, fai presto!” Corro agli arrivi internazionali, extra Shengen. Trovo Carlo già abbracciato stretto a Pape Diop ed Emiliana a Kalsoum, Pape Ndiaye sorride di felicità. Bagagli e strumenti musicali sono accatastati sui carrelli. Partiti la sera prima da Dakar i musicisti sono finalmente arrivati a Cagliari: è la conclusione di una piccola odissea.
Noi di Cherimus e i musicisti sardi, cittadini italiani, siamo andati a Dakar senza visto sul passaporto, senza dover pensare di richiedere lettere di invito, garanzie, assicurazioni, prenotare biglietti aerei di andata e di ritorno, fissare colloqui in ambasciata, subire lunghe attese e aspettarci rifiuti. Noi siamo partiti pensando di non dimenticare il dentifricio e verificando la presenza nelle nostre tasche del passaporto.
Alla prima richiesta di visto il consolato italiano a Dakar ha negato tutti i visti dei musicisti senegalesi nonostante il progetto fosse finanziato e sostenuto dalla Regione Sardegna. Tutto il programma veniva rinviato: nuova documentazione da produrre velocemente, nuove tasse da pagare, nuovi colloqui, nuove attese, nuove prenotazioni aeree, più costose.
Al secondo tentativo e ormai in grande ritardo, i visti vengono concessi.
Poi ci si è messa la sfortuna. Il giorno della partenza a Dakar, la circolazione è in tilt e il veicolo che doveva portare i musicisti è andato in panne sulla via dell’aeroporto. Volo perso. La notizia ci arriva a tarda notte. Da Perdaxius ci mettiamo subito in contatto con Dakar: notte insonne e un giorno speso a fare la conta degli spiccioli rimasti nel budget per riacquistare i voli.
L’arrivo di Kalsoum, Pape Ndiaye e Pape Diop rompe un brutto incantesimo. Ci abbracciamo lungamente e ridiamo di gioia, alle porte deserte degli arrivi extra Shengen. In quel momento ripenso ad un altro abbraccio, una sera di 8 anni fa sempre ad Elmas. Aliou Ndiaye, Alassane Cissé, Bah Moody, Sidi Koita, Baka Cissoko: l’anima senegalese di Chadal, gruppo musicale nato appena qualche mese prima, sbarcava finalmente in Sardegna. Avrebbero suonato di nuovo con Alberto Balia, Matteo Scano e Riccardo Pittau, l’anima sarda del gruppo, su e giù per la Sardegna e poi fino a Milano, al Carroponte di Sesto San Giovanni. Quell’agosto del 2011 sarebbe stato indimenticabile per tutti e Bah Moody ci avrebbe scritto una canzone di successo.
Deggo Yëggo non sarebbe potuto esistere senza Chadal, e Chadal sarebbe rimasto troppo solo senza i Deggo Yëggo.
Il viaggio dall’aeroporto a Perdaxius incanta Pape Ndiaye. Il sole di settembre illumina tutto, i colori delle colline squillano. I gialli, gli ocra, gli argenti, i verdi agitati dal vento: Pape non stacca gli occhi dal finestrino. “Dio le ha fatte proprio belle quelle colline”, ci ripete in francese.
Appena arrivati dalla popolosissima Dakar, l’impatto con le strade deserte di Perdaxius è immediato. Pape Diop ci scherza subito su. “Dov’è la gente? Dove sono tutti?” fa a Kalsoum, girando incredulo la testa a destra e a sinistra con l’abilità di un consumato commediante e facendoci ridere a crepapelle.
Sembra Dante, la selva oscura e la collina illuminata dal sole, ma siamo circa 170 anni prima dall’uscita del poema. Secondo la leggenda, la nave del giudice Gonario di Torres, di ritorno da un pellegrinaggio in Terrasanta e ormai in vista del golfo di Orosei, incappa in una terribile tempesta. La situazione è disperata e Gonario, cercando la terra all’orizzonte, vede un’alta montagna illuminata da un raggio di sole che si fa largo tra le nubi oscure: per Gonario è un segno divino; il giudice si affida alla Madonna e la nave si salva miracolosamente. Gonario va subito alla ricerca dal monte dove vuole adempiere al voto fatto: costruire un santuario su quella cima luminosa. Nel corso dell’ascesa incontra una madre con un bimbo tra le braccia che lo guida e che poco prima della cima si ferma per riprendere fiato, stendendosi nell’incavo di una roccia e posando il bimbo sul palmo liscio di una pietra. Gonario prosegue e raggiunge la vetta ma non riuscirà più a trovare quella madre che si convince essere la Madonna in persona con Gesù bambino in braccio. Il monte prenderà il nome del giudice, “Monte Gonare”, l’incavo dove la donna si è fermata a cercare un po’ di ristoro e la culla naturale dove ha adagiato il neonato diventeranno nei secoli oggetto di culto e venerazione. Ogni anno, l’8 di settembre, gli abitanti di Orani, Sarule e di tutto il circondario, vanno in pellegrinaggio al santuario sulla vetta del monte. Nei corso dei secoli intorno alla chiesa di sono sviluppate le cumbessias, casette dove i pellegrini alloggiano nei nove giorni precedenti la Festa.
Secoli e secoli dopo la mitica ascensione di Gonario, in quello stesso ultimo spicchio d’estate e su quello stesso monte impervio i Deggo Yëggo si sarebbero esibiti la prima volta in Sardegna e per la prima volta al completo.
E’ un esperimento, un azzardo, fortemente voluto dal Museo Nivola di Orani e dai comitati che organizzano la festa. Ci dicono che è la prima volta che una band suona alla festa di Monte Gonare. Prima del concerto siamo tutti invitati speciali in una delle cumbessias; ci vengono offerti vassoi di pistoccus e ogni genere di bevande. Pape Diop scherza con un Monsignore che non smette di sorridere e di assecondare Pape e rilanciare: una coppia comica affiatata. Tra le bancarelle lungo la via incontriamo alcuni venditori senegalesi che vivono in Sardegna. Per i musicisti è una bella sorpresa; Pape Diop e Kalsoum si trattengono volentieri con loro parlando in wolof, chiedendo “come va? di dove siete?” Ridono, scherzano e fanno acquisti. Kalsoum mi si avvicina e mi dice raggiante: “la gente qui è come a Dakar, mi sento in famiglia.”
Il sole è ancora alto nel cielo quando tutti insieme ci inerpichiamo nelle strette vie del sentiero nel mezzo di una folla di fedeli che salgono e scendono. Dopo un po’ arriviamo anche noi alla cima -menzione speciale per Pape Diop, eroico, in babbucce sulle rocce-, tra alberi di leccio, castagno e roverelle, oltre i quali si stende un paesaggio sterminato. Sembra di stare sul tetto dell’intera isola. Da la sopra si vede il golfo di Orosei e quello di Oristano: la vista sembra estendersi all’infinito. Il santuario è un drago di pietra accucciato sul monte dalla notte dei tempi; intorno c’è solo un sentiero stretto che si affaccia a picco sul mondo.
Poco prima del tramonto il cielo è blu, l’aria fresca fa ondeggiare le bancarelle, il palco è pronto e attrezzato, tanta gente si avvicina. Ci sarà un concerto, questo è chiaro; è invece ancora una incognita cosa suoneranno questi sei musicisti. Kalsoum è sul palco vestita a festa sotto una felpa calda: il freddo comincia a mordere, ma quando il concerto comincia non ci si bada più. Terrorism, Deggo Yëggo, Maman, Punk Priogu, Music, Touche pas là, le canzoni saltano fuori una dopo l’altra: la voce di Kalsoum, l’organetto di Pierpaolo, la Tama di Pape Ndiaye, le launeddas di Massimo, il sabar di Pape Diop, e il computer di Frantziscu, scuotono l’aria di sa Corte e si spargono. Da lì sopra, lo immaginiamo tutti, si può arrivare ovunque, la musica vola e zigzaga veloce tra l’erba astragola, l’elicriso, le orchidee selvatiche, la peonia e le rose di montagna.
Quando arriva il turno del Feche Tundu, ballo sardo rivisitato con tama e sabar, il pubblico, disperso dal freddo sempre più pungente e sotto l’impulso di Kalsoum, si raccoglie a gruppetti di due tre persone per volta e dà forma a un cerchio danzante che si allarga in tutta sa corte. Sono forse i dieci minuti più emozionanti del concerto: il cielo rosso fuoco è davanti agli occhi dei musicisti.
L’ultimo brano della scaletta, Tcow Li, riporta per un momento la voce di Kalsoum e il chiacchiericcio delle strade di Dakar al centro della scena, poi il concerto si chiude, quando tutto intorno a noi è color blu crepuscolo. Le persone rimaste si ritrovano per una birra. Per scaldarsi si canta ancora, a tenore, Kalsoum tutt’orecchi ad ascoltare.
C’è la Televisione a Cagliari. Una telecamera di quelle più grandi del normale è ancorata ad un cavalletto anche lui più grosso del normale. La giornalista della RAI Chiara Zammitti mi guarda negli occhi più volte durante il concerto come per dire “che voce Kalsoum!”. L’operatore impassibile non fa una piega, compie movimenti sicuri e precisi con la camera a mano: uno per uno, fa un ritratto video ad ogni musicista, si muove con lentezza e senza esitazioni: un chirurgo. Si ferma sul volto di Kalsoum, ne prende quanto basta perché se ne possa cogliere l’energia, e avanti un altro.
I musicisti non si risparmiano e il pubblico nemmeno: si balla tanto. Le gambe, le braccia, le mani seguono il ritmo che incalza, vanno su e giù come sulle montagne russe: ogni canzone un giro, una corsa, che si ripete, che tutti ripetono con l’entusiasmo dei bambini al luna park. A Cagliari ci raggiunge finalmente Daouda Kote, coordinatore dell’associazione partner Ker Thiossane. Ora siamo davvero al gran completo.
Il giorno dopo davanti alla TV riviviamo tutto. Insieme ai musicisti ci godiamo questi dieci minuti di celebrità: l’indomani ci sarà da pensare a Perdaxius, la tappa per certi versi più importante del tour.
Deggo Yëggo vuol dire armonia, ascoltarsi, condividere, agire insieme: “un giorno tutti saremo Deggo Yëggo!” dice Kalsoum. Beh, a Perdaxius questa volta sembra essere accaduto davvero. E non è mica facile essere Deggo Yëggo, stare uniti, aspettarsi, pazientare, organizzarsi, lavorare insieme, correre.
Noi lo sappiamo bene. Perdaxius è il nostro paese, dal 2007 sede dell’associazione Cherimus. Nel corso degli anni abbiamo lavorato con le scuole, la parrocchia, la biblioteca e le associazioni: ci conoscono praticamente tutti. 1500 anime distribuite in tante piccole frazioni nel mezzo di un’ampia valle: per noi è sempre l’esame più importante, Perdaxius, quello più difficile.
Questo intensissimo fine settimana è cominciato in realtà già in aprile, quando Emiliana ha raccolto tutte le associazioni di Perdaxius in un gruppo Whatsapp chiamato, per evitare qualsiasi dubbio in proposito, “festa Sardegna Senegal”.
L’obiettivo era di fare una festa che mettesse insieme non solo la musica, sarda e senegalese, ma anche la cucina e il modo di stare insieme. Tra le tante difficoltà e dopo lunghe e appassionanti riunioni, ha preso forma un Deggo Yëggo tutto perdaxino, una squadra affiatata composta da Su Nuraghe, Pantagus, ASD la casa del sorriso, ASD Perdaxius calcio, Gianni Nocco con i suoi giogus antigus e il Comitato delle feste del paese.
Il gran giorno è finalmente arrivato. La cucina della sede di Cherimus si trasforma in un vero e proprio laboratorio culinario per preparare una degustazione di specialità tipiche senegalesi e sarde da offrire al pubblico durante il concerto.
Kalsoum prepara la fataya, un piccolo panzerotto di carne da gustare con una salsa a base di cipolle, insieme ai volontari di Pantagus e della Casa del Sorriso. Su Nuraghe cuoce alla brace le salsicce di pecora e ritira il pane fragrante appena uscito dal forno Garia di Perdaxius. Nel mentre sono in fase di preparazione anche i ravioli fritti, dolci ripieni di mandorle o di ricotta, il bissap, una bevanda dolce ottenuta dall’infusione di foglie di ibiscus e, non poteva certo mancare, il caffè Touba, speziato e zuccherato proprio come a Dakar.
Che non sarebbe stato un concerto come gli altri, lo si capisce subito. Alberto Balia, mitico chitarrista di Santadi, ci è venuto a trovare. I musicisti lo accolgono subito sul palco, e lo invitano a suonare con loro. Alberto si era esibito insieme ai Chadal a Perdaxius esattamente 8 anni fa, durante la tournée del gruppo, in una calda domenica d’estate.
Per un’ora e mezza siamo davvero tutti Deggo Yëggo. Le associazioni sono in piazza insieme, lavorano spalla a spalla. Qualcuno fa presente che non è mai successo prima, che forse ci voleva un progetto del genere, una festa tra Sardegna e Senegal. Nel momento storico che stiamo vivendo non è cosa da poco.
Balia chiude il concerto con un medley di brani dei Chadal. Ci sentiamo ancora tutti lì, 8 anni dopo. La musica di quel concerto d’agosto non è mai andata via. È rimasta nei muri delle case ed è ancora viva sotto la nostra pelle. Tutti in piedi per i saluti finali: il pubblico applaude, Balia sorride a fianco dei Deggo Yëggo, sempre più sciolti e affiatati sul palco. È una bellissima foto di gruppo.
15 settembre 2019: anche la musica di Deggo Yëggo non se ne andrà mai più via da qui.
“Su foghíle” in sardo logudorese significa focolare, il cuore della casa, dove ci si incontra, dove si trasmette la conoscenza. Così Antonio e Giorgia spiegano il nome del loro progetto, nato nella piccola realtà rurale di Semestene. Il loro lavoro mette al centro gli abitanti e il loro bagaglio di saperi antichi, oggi considerati irrilevanti, superflui, buoni per farci un museo per i turisti. L’obiettivo di Foghiles è di riappropriarsi di questo patrimonio e di usarlo di nuovo come lingua viva, come forza propulsiva della comunità.
Ogni anno Foghiles organizza il festival “Foghiles Encounters: incontri e sperimentazione nello spazio rurale”. 10 giorni di workshop, incontri, concerti, performance dove Semestene si apre al mondo ospitando anche progetti nati e cresciuti nelle tante realtà rurali della Sardegna. Cherimus e i Deggo Yëggo non potevano mancare. Eccoci di nuovo in viaggio, da sud a nord, nell’abbraccio caldo del pomeriggio.
Arriviamo a Semestene nell’ora più bella del giorno: la luce dorata abbaglia i dorsi delle colline, i tetti, la guglia appuntita del campanile, in stile gotico catalano. Con Kalsoum, Pape Diop, Pape Ndiaye ci inoltriamo per le strade deserte del paese. Il portone della chiesa è chiuso, non c’è nessuno per quelle vie dal selciato perfetto. Le case sono apparentemente senza vita, la brezza trasporta quella magia propria dei sogni. Pape Diop sorride e si chiede anche qui dove siano finiti tutti. Lascio per un attimo i musicisti in piazza e vado alla ricerca di qualcuno. In una stradina incontro Chiara, già conosciuta tempo prima a Cagliari. Mi accompagna al cortiletto segreto di Foghiles, un angolino accogliente di mondo, disabitato ma ancora per poco. La tavola è già apparecchiata tra le fronde degli alberi; al lato una cucina è in piena attività con tante pentole a bollire per la cena. Tutto è già pronto per la gran festa.
Il concerto è il quarto della serie e si sente. Il gruppo ormai rodato e senza sforzo fa quello che vuole dei brani, si diverte, inventa, diverge, volteggia. La musica corre via di filato, con il pubblico che dopo aver ballato, battuto a ritmo le mani, ne vorrebbe ancora e ancora. Concerto dopo concerto l’intesa dei musicisti è cresciuta, la loro musica si è intrecciata indelebilmente.
Siamo in tanti, stretti in un bar vicino al conservatorio di Cagliari. Le facce sono distese distese. Da poco è terminato l’ultimo concerto dei Deggo Yëggo il sesto. Il cerchio aperto a Dakar il 29 di giugno si chiude qui, per adesso almeno. Nessuno pensa davvero si sia chiuso per sempre. Si brinda alla conclusione dell’avventura con aranciata, Cola Cola, birra, spritz, pizzette e salatini.
Ai tavolini i musicisti sono tutti vicini di sedia. Il loro rapporto si è stretto, giorno dopo giorno, anche se Pierpaolo e Massimo non parlano il francese, unica lingua ponte tra tutti noi. Kalsoum dice che con Massimo e Paolo è come stare in famiglia. Musicalmente e umanamente c’è un grande rispetto e questo si è visto in tutti i concerti. C’era sempre spazio per tutti, nessuno prevaricava, ognuno si sosteneva. Si è sentito anche qui al conservatorio, luogo per eccellenza dell’educazione musicale. La sala era gremita di studenti, musicisti e semplici appassionati. Anche in questa occasione Daouda ha chiamato tutti sul palco per il ballo tondo: Venite a ballare! Esclamato coraggiosamente in italiano. Tanti del pubblico hanno partecipato al ballo, chi danzando con maestria, chi invece improvvisando, chi perfetto e chi impacciato. Ma il cerchio girava lo stesso, talvolta schiacciandosi, tanto poco era lo spazio, il cerchio non si fermava mai.
Per strada sembra già notte, i musicisti si salutano commossi, domani è il giorno della partenza dei senegalesi, da non credere. È il momento degli ultimi selfie: Pape Diop, Pape Ndiaye e Kalsoum ne hanno fatti tantissimi con tutte le persone che man mano incontravano lungo il percorso: con la famiglia di Emiliana, quella di Pierpaolo, quella di Massimo, ogni momento era buono per immortalare un incontro, una faccia sorridente; ricordo d’altra parte anche i selfie che alcuni ragazzini a Cagliari hanno fatto con Pape Ndiaye, forse per il suo portamento da star della musica, quale poi è in Senegal. In una settimana e mezza abbiamo viaggiato tanto, e non solo geograficamente, siamo stati accolti da tante diverse comunità, abbiamo vissuto vere e proprie immersioni in mondi diversissimi tra loro. Un concerto non è mai stato solo un concerto ma un momento di condivisione profonda.
Mentre scrivo, il 4 gennaio 2020, l’album con le tracce audio registrate a Dakar è in corso di lavorazione. Presto sarà pronto a trovare il suo spazio a girare dappertutto, ad esistere nelle orecchie di più persone possibile, di parlare di uno scambio musicale, umano, culturale possibile, anzi necessario, bello.
Deggo Yëggo si fonda sul nervo scoperto dell’incontro di due comunità. Entrambe abitano lo stesso territorio ed una delle due è fortemente discriminata. La comunità senegalese è il più vasto gruppo extraeuropeo presente sull’isola, lo è da anni, ma ancora la presenza di una comunità nera con una religione e una cultura diverse dalla maggioranza della popolazione sarda – e italiana – è vista con sospetto e paura, ed è spesso osservata con le lenti del pregiudizio.
Deggo Yëggo vuole contribuire a mettere in crisi paure e pregiudizi attraverso la musica, una delle cose più preziose e identitarie della cultura sarda, il suo fiore all’occhiello. Condividere e intrecciare questo patrimonio con quello di un’altra cultura presente sul territorio ma ancora nascosta, invisibile ai più, può essere uno dei grimaldelli per ingannare la serratura e spalancare una porta chiusa da troppo tempo.
L’accoglienza è stata calorosa e bella, quasi sempre. I Deggo Yëggo sono stati investiti dall’accoglienza e dalla generosità sarda, a colpi di piatti prelibati, dolci belli come ricami, tanto tempo passato a tavola.
Durante la turnée ho fatto più volte attenzione a non scuotere troppo quella bella superficie di accoglienza. Avevo quasi paura di metterla alla prova. Non potevo non pensare a tutti gli episodi di intolleranza, di sospetto, di silenziosa esclusione, di pregiudizio, di paternalismo, di pietismo, vissuti nel corso degli anni. Il razzismo appare in forme spesso camuffate, apparentemente innocue, semitrasparente tra le righe di uno scherzo, di un commento, di una battuta. Il razzismo in Italia striscia nel linguaggio che parliamo tutti i giorni da quando cominciamo a parlare: dalla televisione ai giornali, dalla scuola alla famiglia, infilato nell’arte e nella letteratura stessa che studiamo e celebriamo. Smontarlo costa troppo a quanto pare, più facile negare, minimizzare, riderci sopra. Smontarlo costa attenzione e lavoro, costa fatica spesa ad ascoltare la voce di chi purtroppo il razzismo lo vive tutti i giorni. Costa fatica spesa a capire da che parte stanno i privilegi e quale sia la propria posizione nel momento in cui si parla. Tanto lavoro per non cadere in quella stessa multiforme trappola.
Fare il bilancio di questa tournée è difficile perché il progetto è più vasto di quei giorni passati insieme, è più vasto dei mesi e delle settimane che abbiamo dedicato a renderlo possibile. Questa piccola tournée ha coinvolto direttamente le comunità locali, gli abitanti dei paesi, le associazioni, le autorità, il tessuto vivo della Sardegna, sia urbano che rurale. Le feste e i concerti hanno creato una rete che prima non esisteva. E questo è un piccolo tesoro da conservare e da crescere. I musicisti hanno creduto nel progetto e si sono spesi con generosità in uno scambio autentico e profondo nonostante le difficoltà e le ristrettezze economiche.
Al progetto manca ancora una parte indispensabile: il confronto diretto e la partecipazione attiva delle comunità senegalesi che abitano l’isola. Questo sarà il primo passo di un prossimo progetto di tournée musicale.
Ci sarà bilancio se avremo la forza di dare continuità e complessità al progetto. Se saremo disposti a crescere come persone, come artisti e come comunità, avremo di fronte a noi un lungo viaggio con un tracciato aperto tutto da inventare, e tanta musica sulla quale imparare a ballare.
Come nasce Zeinixx?
Dieynaba Sidibé nasce il 2 luglio del 1990, Zeinxx invece nasce nel 2008, anno in cui ho iniziato a fare i graffiti. Da 11 anni sono nel campo dell’hip -hop e mi occupo di graffiti di slam, rap e canto. Tutto è cominciato con la pittura. Ho sempre amato essere in contatto con la pittura, avere la pittura sulle mani, dipingere e lavorare su delle tele; era qualcosa che mi piaceva molto sin da quando ero adolescente. Un bel giorno ho scoperto i graffiti e sono andata ad imparare questa tecnica da “Africulturbain” dove ho conosciuto Grafixx, famoso in quel periodo per i suoi graffiti: era la fine del 2007. L’ho incontrato e gli ho detto: “Buongiorno, vorrei imparare a fare i graffitii!” Lui è rimasto sorpreso: ero la prima ragazza interessata ai graffiti. Da lì ho imparato le basi e la storia della cultura hip hop. Sono stata la prima ragazza a fare i graffiti in Senegal e sto continuando su questa strada.
Quale è stata la tua prima opera d’arte o progetto artistico?
Il mio progetto risale al 26 febbraio del 2008 o 2009; è la stata la prima volta che ho affrontato un muro, anche se non era nemmeno un vero muro, ma un muro mobile, cioè una tela molto grande messa davanti a un muro. È stato durante la Urban Session organizzata da Africultururbain: quella è stata la prima volta che ho toccato un muro con un pennello, ma la prima volta che veramente ho potuto lavorare su un muro tutto mio è arrivata negli anni successivi.
Che cosa pensa la tua famiglia della tua carriera? Hai il loro supporto?
Che bella domanda! (ride) Quando si parla di famiglia è un po’ difficile, soprattutto quando fai parte di certe etnie; per esempio noi siamo Peul, e non conosciamo i graffiti e tutto quanto. Già vedere che uno dei figli vuole fare l’artista è un problema, ma è ancora peggio se sei una ragazza e dici che vuoi fare dell’arte ed è ancora peggio se vuoi fare hip hop, una cultura che è stata molto marginalizzata. Fino a 5 – 6 anni fa quando chiedevo ai miei genitori che cosa pensassero di chi facesse rap, perché nell’hip hop fanno tutti rap, mi rispondevano che per loro era un ambiente di malviventi, di drogati e cose così. Questa è la percezione generale per cui puoi immaginare in questo contesto quanto può essere difficile per una ragazza entrare in questo mondo, evolversi e soprattutto lasciare un segno. Per me è stato particolarmente difficile con mia madre che non ha mai capito la mia voglia di fare graffiti e slam e mi ha sempre detto: “il giorno che ti vedo davanti a un muro a fare graffiti ti ammazzo”, ma poi mi ha lasciato fare. Era così. Dal suo punto di vista i figli devono diventare ingegneri o medici e fare i mestieri migliori e non posso prendermela con loro. Piano piano hanno capito che era la strada che avevo scelto e adesso quando parto per un lavoro è mia madre che mi trascina la valigia e mi accompagna in aeroporto. Si è trattato di vincere una battaglia psicologica: qua non si litiga con la famiglia direttamente e apertamente. Devi affrontare una battaglia psicologica e vincerla ogni volta; si vincono le battaglie ma non per forza la guerra ogni volta. La famiglia è così (ride).
Ci sono degli artisti che hanno ispirato e ispirano il tuo lavoro?
Quando ero piccola volevo diventare come Leonardo da Vinci, Van Gogh o come Pablo Picasso; mi vedevo diventare grande e dire che avevo firmato qualcosa di importante. Quando Zeinixx è nata, nel 2008, ho comunque continuato a ispirarmi a Leonardo, anche se è diametralmente opposto ai graffiti. Quello che mi piace di lui è che è interdisciplinare e multidimensionale e mi sono detta che se lui lo era perché non potevo esserlo anche io? Questa ispirazione mi ha spinto a fare rap, hip hop, slam, graffiti e anche quando faccio decorazione di interni non voglio mai mettermi dei limiti, voglio sempre uscire dalla mia zona di comfort e non voglio fermarmi dove le persone pensano che io mi fermerò. Se c’è un’artista grazie alla quale, o per colpa del quale, amo la musica questa è Oumou Sangaré, che ascolto da quando ero piccola. Non capisco una sola parola di quello che canta, ma posso cantare ogni sua canzone dall’inizio alla fine anche perché quando ero piccola ogni volta che mio padre andava in Mali o all’estero faceva sempre in modo di portarmi una cassetta. Nello slam invece l’ispirazione è Matador, che ha portato lo slam in Senegal. Prima lo slam non lo conosceva nessuno, poi lui è stato in Belgio con “Africultururbain” ed è tornato in Senegal con questa forma di poesia che nessuno aveva mai sentito. Ci chiedevamo tutti: ma cosa sta facendo? Ci ha detto che quello era lo slam e ce lo ha insegnato. Adesso dappertutto ci sono dei poeti che fanno slam, ci sono dei club in tutto il Senegal. Il Senegal ha addirittura vinto la coppa d’Africa di slam quest’anno. Sono questi gli artisti che mi hanno spinto ad andare avanti e che continuano a ispirarmi.
È difficile essere l’unica artista donna che si occupa di street art a Dakar? Come ti senti rispetto a questo?
Oggi non sono più la sola artista a fare graffiti. Fino al 2105 sono stata la sola e la prima a fare graffiti in Senegal, poi ce ne sono state anche altre però piano piano si ritirano, non c’è costanza; un’artista visiva invece la vedi che comincia, che continua, si evolve e fa le sue mostre i suoi progetti. Con i graffiti non è così, non so come te lo posso spiegare. Quando ho iniziato io, per esempio, era un problema perché era un ambiente di soli uomini. Per esempio sono stata invitata a dipingere un muro insieme ad altri 14 artisti: erano tutti uomini e io ero la sola donna del gruppo. La gente che veniva a vedere la mostra non pensava di avere di fronte 15 artisti, ma 14 artisti e una donna e questo mi ha creato dei problemi perché le persone mi cercavano per farmi delle domande in un modo aggressivo. Mi vedevano davanti al muro e mi venivano a dire “ah sei una donna e dipingi”: questo è aggressivo. Aggredire una persona che ha come solo proposito quello di esprimersi attraverso l’arte e di condividere quello che fa, di far venir fuori sé stessa e ricordarle invece che è una donna e non un’artista… Perché una donna non dovrebbe dipingere? Da quel punto di vista è stato difficile, ma non ho mai vissuto questa emarginazione perché tutti gli artisti hanno sempre avuto un profondo rispetto per me e mi hanno aiutato molto, non salendo mai su una scala o un’impalcatura al posto mio, ad esempio. Quando io devo fare un graffito su un muro e salire su una scala o un’impalcatura io lo so fare. E sai perché? All’inizio questi artisti quando dovevo dipingere uno spazio molto in alto mi dicevano “vai, Zeinixx, sali”. Se vedessi la scena da fuori diresti che questi ragazzi sono cattivi, scortesi, che mi stanno marginalizzando in qualche modo, ma non è così: se quella cosa spetta a te, la devi fare tu. Sia che noi ci siamo sia che non ci siamo, tu devi essere in grado di farcela da sola. Questo mi ha aiutare a fare molte cose. Nel 2018, in Australia, ho fatto un muro di 13 metri per 6 di altezza e l’ho fatto da sola, con una scala e un elevatore.
E comunque non sono più la sola. Per esempio recentemente abbiamo fatto un graffito sul muro del liceo J.F. Kennedy, durante la “Urban Women Week”, festival cento per cento femminile che organizziamo. È straordinario che siamo state noi, 5 donne a realizzarlo e ancora oggi la gente che passa non ci può credere che siano state delle artiste a realizzarlo: è questa la mentalità che deve cambiare.
In Italia, così come in altri paesi in Europa gli street artists non sono bel accettati dalle autorità. Come è percepita la street art in Senegal? Trovi degli ostacoli?
Negli Stati Uniti per esempio c’è un corpo speciale della polizia che si occupa dei writers; in Europa è molto raro vedere un writer realizzare un graffito in pieno giorno a meno che non si tratti di un festival o di qualcosa di autorizzato. In Senegal i graffiti sono tollerati. Da noi chi fa graffiti vuole comunicare qualcosa legato ad un aspetto sociale, socio-culturale, non lo si fa per il proprio ego. Non vado a scrivere Zeinixx su un muro solo per scriverci Zeinixx: no, non ha senso per noi. In quanto artista senegalese non ha senso andare mettere la nostra firma sul muro, non ha niente di logico. Quello che facciamo, lo facciamo per condividere la nostra arte con gli altri, l’idea è di mettere dei messaggi, dei messaggi forti che possano essere utili alla gente che passa ogni giorno accanto al muro che abbiamo dipinto. È come la poesia, è come il canto, è come le arti visive quando vuoi veicolare un messaggio, come un giornalista che scrive il suo giornale.
Quale è il messaggio più importante che vuoi diffondere attraverso il tuo lavoro?
I messaggi sono molti, ma il più importante per me riguarda i bambini. Ogni volta per me è importante dire ai gruppi di studenti che vado a trovare nelle loro classi e a cui mostro il mio lavoro, che hanno il diritto di scegliere che cosa vogliono diventare nel futuro. Spesso i genitori commettono lo sbaglio di scegliere al posto dei figli quello che devono diventare. Tu hai un bambino e appena cresce un po’ dici “ah, tu sarai un medico!”. Perché questo voler scegliere al posto dei bambini? Loro hanno il diritto di scegliere, di fare degli errori, di cadere, di risollevarsi, di cercare, di trovare, di dire: “questo non va, questo invece si, per cui faccio questo”. Bisogna solamente accompagnarli, e non ridirigerli verso qualcosa che un domani non hanno voglia di fare. La gente ha tendenza a vivere la propria vita e a voler vivere anche le vite dei loro bambini e su questo non sono d’accordo.
So che molti de tuoi lavori sono dedicati ai diritti delle donne. Mi puoi parlare di questo tuo importante messaggio?
Non mi occupo solo dei diritti delle donne in Senegal, ma nel mondo perché le donne abbiano tutti i diritti, che possano decidere, che possano dire sì o no. Perché non facciamo in un altro modo? Perché non partiamo dal principio che ci sono esseri umani e basta: al di là degli aspetti sociali, culturali e religiosi. La gente dovrebbe solo considerare tutti come esseri umani, che siano bambini, donne, uomini, ma che siano in primo luogo degli esseri umani, e penso che arrivati a quel punto non urleremo con forza, tutto il tempo, “i diritti delle donne!” “I diritti dell’uomo!” “I diritti dei bambini!” Li terremo presenti, ma non dovremo più gridarli come dobbiamo fare ora.
Intervista realizzata da Chiara Peru, ricercatrice dell’Università di Sassari, il 27 giugno 2019 a Kër Thiossane, Dakar
Carnival!Nairobi, 2018. Ph: Hussein Farouk Ali
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I giardini possibili, Iglesias, 2019. Ph: Cherimus
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Sénégal ici la Sardaigne!, 2019. Ph: Luca Cheri
Informativa relativa ai contributi pubblici ricevuti nell’anno 2018
Ai sensi della L. n. 124/2017, art. 1 co. 125 – 129 , modificata con L. n. 58/2019, pubblichiamo l’informativa relativa ai contributi pubblici ricevuti nell’anno solare 2020 da Cherimus
CF 90024830920
“…nanta ca inguni ddoi essit cosa”
“…there is something that goes out there, they say”
CHERIMUS SUMMER SCHOOL
July 14-24 2018
OPEN CALL
Deadline: June 10 2018
Cherimus is a not-for-profit organization founded in Perdaxius, Sulcis area, southern Sardinia, in November 2007 by a group of artists and professionals from different sectors and disciplines, based in Sardinia and all over the world.
Cherimus’ aim is to contribute to the development of the social and cultural heritage – past and present – of the Sulcis region through art, as a way of reflecting and intervening into its economic, social, political and cultural problems.
Like most marginalized areas of today, Sulcis is torn between the preservation of its heritage and its ongoing incorporation into the global sphere. Yet, the territory does not always seem to be able to actively manage this transition: its local history and identity run the risk of becoming mere ‘anecdotes’ or curiosities for tourists, rather than being consciously integrated into the real existence of communities, so as to create new avenues for culture and communal life.
Cherimus wants to open Sulcis up to inputs and experiences coming from distant places, building a bridge between regions that are geographically remote or apparently incompatible but which may nonetheless experience similar contradictions between their marginality and cultural richness. To this purpose, we have developed throughout the years a number of projects in collaboration with African, Middle Eastern and American institutions.
Cherimus Summer School is an experimental space designed to promote formal and informal discussions and exchanges among artists, researches and cultural managers. It aims to explore different forms of art-making through non-institutional teaching methods and experimental ways of sharing knowledge.
Cherimus Summer School seeks to establish a relation with the local communities’ existing energies, through the encounters we will make on our way and thanks to the guest artists we will collaborate with.
Up to 10 participants from all nationalities will be selected. The Summer School will last 9 days and will take place in Perdaxius and in the Sulcis area.
Every day of the Summer School, the selected artists will take part in the workshops organized by Cherimus’ network of artists. The workshops will give them the opportunity to get into contact with the different elements that coexist in the Sulcis area, such as landscapes, sounds, flavors, customs and traditions, which will be investigated through dynamic classes.
The outcome of the Cherimus Summer School will be defined together with the participants.
RANGE OF ACTIVITIES (the scheduled activities will be defined together with the participants):
– Visit to Pranedda: we will trace its untracked paths! Pranedda faces Perdaxius; it is a ancient mountain where legendary and mysterious events happen. Here you can find an article about the mountain written by Cherimus artists Matteo Rubbi and Santo Tolone: http://www.flashartonline.it/article/matteo-rubbi-santo-tolone/
ARTISTS AND STAFF CHERIMUS SUMMER SCHOOL:
LOCATION : Perdaxius is located ~70 Km from Cagliari. The nearest train station is Carbonia which is reachable by train from Cagliari airport and Cagliari city centre.
Accommodation Info : A flat with three separate bedrooms, shared kitchen, living room and garden.
Technical Info : Basic working power tools and multimedia devices (printer, video-projector, audio and video recording devices).
COST : EUR 500.00
The fee includes:
Accommodation in double/quadruple fully equipped bedrooms
Not included:
This is the first Summer School organized by Cherimus and it doesn’t receive any external funding.
We can provide a formal letter or invitation to enable the artist to search for funding and cover the costs.
APPLICATION PROCESS
To apply, please provide:
Please send 1 PDF file compiling all the application materials to cherimus@gmail.com with the subject: Cherimus SUMMER SCHOOL
Attachment should not exceed 24 MB.
Video and sound files should be uploaded online. Please, include links and passwords, if necessary, in the PDF.
APPLICATION DEADLINE : June 10, 2018
The participants will be notified about the outcome of the selection process via email by 18th June.
The deadline for the payment of fees will be 25th June.
A minimum of 6 participants will be required to activate the Summer School.
“… nanta ca inguni ddoi essit cosa”
“… dicono che lì c’è qualcosa”
“… nanta ca inguni ddoi essit cosa”
“… dicono che lì c’è qualcosa”
CHERIMUS SUMMER SCHOOL
14-24 luglio 2018
Open Call
Deadline: 03 giugno 2018
Cherimus è una associazione no-profit fondata a Perdaxius, nel Sulcis (sud-ovest Sardegna), nel novembre del 2007, da un gruppo di artisti e professionisti di vari settori e discipline, provenienti dalla Sardegna e dal resto del mondo.
Cherimus partecipa attraverso l’arte contemporanea allo sviluppo del patrimonio sociale e culturale – passato e presente – del Sulcis Iglesiente, considerando l’arte come riflessione e intervento sulle questioni economiche, politiche e culturali del Sulcis.
Come ogni “periferia”, il Sulcis, oggi, è diviso fra la conservazione della sua eredità e la spinta verso l’inserimento nella sfera globale. Tuttavia la transizione rischia di essere solo subita: la storia e l’identità territoriale rischiano di trasformarsi in aneddoto o semplice curiosità turistica, piuttosto che essere consapevolmente integrate dalle comunità locali per creare nuovi spazi culturali e di vita comune.
Cherimus cerca di aprire il Sulcis a esperienze e idee provenienti da paesi lontani costruendo un ponte tra realtà geograficamente distanti o apparentemente incompatibili, che tuttavia spesso condividono lo stesso squilibrio fra ricchezza e marginalità culturale.
A questo scopo, abbiamo sviluppato negli anni numerosi progetti in collaborazione con istituzioni di Africa, Medio Oriente e America.
Cherimus Summer School è uno spazio sperimentale pensato per stimolare una discussione formale e informale tra artisti, ricercatori e cultural manager, che esplora le diverse discipline dell’arte attraverso un metodo di insegnamento non istituzionale.
Cherimus Summer School si relaziona alle energie e tensioni presenti nella società, attraverso gli incontri che hanno luogo nel corso della residenza e grazie agli artisti che terranno I laboratori.
Saranno selezionati fino a un massimo di 10 partecipanti provenienti da tutte le nazionalità. Cherimus Summer School avrà una durata di 9 giorni e si svolgerà a Perdaxius e in tutto il Sulcis.
Durante la Cherimus Summer School i laboratori saranno organizzati quotidianamente. I laboratori offriranno la possibilità di entrare in contatto attivo con diversi aspetti del territorio del Sulcis: il paesaggio, i suoni, i sapori, i costumi e i gesti.
È prevista una restituzione la cui forma finale verrà definita durante i laboratori.
Esempi di attività previste (il programma verrà definito insieme ai partecipanti):
Artisti e staff della Cherimus Summer School:
Location
Perdaxius si trova a circa 70 Km da Cagliari. La stazione ferroviaria più vicina è quella di Carbonia, raggiungibile in treno dall’aeroporto e dalla città di Cagliari.
Alloggio
Appartamento con tre camere da letto separate, cucina in comune, soggiorno e giardino.
Informazioni tecniche
Strumenti di lavoro di base e dispositivi multimediali (stampante, videoproiettore, dispositivi di registrazione audio e video).
Costo : 500.00 EURO
La quota non comprende:
Questa è la prima Summer School organizzata da Cherimus e non riceve alcun finanziamento esterno. Possiamo fornire una lettera di invito formale per consentire all’artista di chiedere finanziamenti e coprire i costi.
Modalità di partecipazione
Per partecipare, si prega di fornire:
Si prega di inviare un file in formato PDF che raccolga tutti i materiali suddetti all’indirizzo cherimus@gmail.com con oggetto: Cherimus SUMMER SCHOOL.
L’allegato non dovrà superare i 24 MB.
I file audio e video devono essere caricati online. Si prega di includere link ed eventuali password nel PDF
Application deadline
03/06/2018
I partecipanti selezionati riceveranno comunicazione diretta via email entro il 18 giugno.
I partecipanti dovranno versare la quota di partecipazione entro il 25 giugno.
La Summer School sarà attivata a partire da un minimo di 6 partecipanti.
Per maggiori informazioni contattaci:
cherimus@gmail.com
Emi Sabiu: +3486299861
Dragos Olea del collettivo Apparatus 22 è arrivato nel Sulcis l’11 di novembre, la sua prima volta in Sardegna, la sua prima collaborazione con Cherimus. Ha passato con noi due settimane, guidando otto workshop in tutto, tra Villamassargia, Domusnovas, Musei e Iglesias più una presentazione a Villamassargia: due settimane intense per dare il via alla progettazione dei “I giardini possibili”.
La prima settimana è stata dedicata a conoscere i bambini e i parchi, a capire i desideri e i sogni dei più piccoli attraverso le loro parole e i loro disegni. Dragos ha anche condiviso il lavoro di Apparatus 22, concentrandosi su progetti pubblici realizzati in tutta Europa.
Durante il primo incontro con i bambini, in ogni paese, abbiamo visitato i quattro giardini. A Villamassargia ci occuperemo di un ex cimitero: dismesso da anni, ancora conserva tracce del viale che lo tagliava in due, cipressi e palme ai lati. I bambini hanno riconquistato lo spazio e hanno immaginato castelli e bandiere, campi da gioco dal profilo impazzito, case di fiori, tane dove cercare quadrifogli e raccogliere simboli della fortuna. Dragos è curiosissimo e fa tante domande ai bambini, accompagnandoli nel loro angolino preferito, dove sono già di casa.
Il giardino di Domusnovas ha al suo centro un grande albero dalle braccia aperte, un carrubo al cui interno i bambini si sono raccolti, come in un’ampolla magica. Qualcuno ha immaginato il carrubo al centro di un intricato labirinto, un luogo in cui giocare a perdersi e ritrovarsi: sull’albero al centro c’è anche una casa, raccoglie strumenti musicali. A Musei, il paese più piccolo, la classe è fatta di dieci alunni, due classi in una in realtà, una quarta e una quinta. Il paese si è velocemente spopolato, ci racconta la maestra, dopo la chiusura di Portovesme. Il giardino è una stretta lingua di verde tra due strade, difficile vederci un parco. Invece i bambini lo compongono naturalmente, estendendo i limiti di quel fazzoletto, vedendoci una scuola di danza all’aperto, un ricco frutteto di cui prendersi cura e da cui attingere frutta fresca, una pista che va su e giù dove far trottare cavalli e moto, un cespuglio dove portare i propri animali preferiti: galline, cani e gatti; e infine, un filo sospeso tra gli alberi dove attaccare i propri disegni per un festival annuale. Dragos scrive sul suo taccuino, pensa e sorride.
Lavorare a Iglesias subito dopo musei è quasi strano: sembra di arrivare da un paese remoto nel mezzo di una metropoli gigantesca. Il suo parco è il più grande dei quattro e ha come due piani: uno collinare, alto, fitto di alberi, da cui si vede un triangolino di mare tra le case, la città mineraria di Monteponi e le sue colline; rotolando ai piedi di questo su di una ripida discesa ci si trova su un prato piano su cui è bello correre liberamente. I bambini infatti corrono, su è giù, e qualcuno rotola davvero giù dalla collina e pensa che quella cosa ci debba essere assolutamente nel parco, che le discese erbose debbano essere preservate.
Nel bosco qualcuno ci vede una dimora magica, dove inventarsi incantesimi, qualcuno ci vede un planetario dove il moto delle stelle è determinato dal volo dei gufi, qualcun altro immagina nel parco dei monumenti dedicati a Ipazia e Frida Kahlo. Dragos segue i bambini, e tenta di immaginare che c’è al di là delle case, al di là delle colline, dove una bambina vorrebbe poter osservare, dall’alto di un albero.
La settimana successiva, a scuola, tutto diventa solido e sbarluccicante. I bambini hanno raccolto carta, tessuti, e materiali sgargianti per dare forma alle loro idee, farne dei modellini. Tante cose si sono trasformate dal primo incontro, i bambini hanno lavorato in gruppi unendo le idee e le forze stimolati da Dragos che ha studiato le loro idee e ha proposto tante possibili vie di sviluppo. A Villamassargia la tana è diventata una mini pinnetta, costruzione in pietra tipica della Sardegna; il campo da gioco ha un perimetro frastagliassimo che ricorda le vecchie mappe della Sardegna, qua e là sorgono porte e passaggi, elementi tutti collegati da regole del gioco ancora da scrivere. A Domusnovas vengono immaginati labirinti a forma di faccia di topo, osservatori astronomici e palcoscenici, tutto intorno al carrubo. A Musei le sbarre per la danza, gli assi di equilibrio, il circuito per i cavalli e per le moto, i fili per attaccare i disegni, diventano un’unica linea che sale e scende tra i frutteti e l’erba. A Iglesias gli animali si moltiplicano, polpi, civette, tartarughe, draghi, pandacorni e il punto di osservazione diventa un tappeto elastico arcobaleno, dotato anche di ascensore…
Al termine degli workshop c’è stato il tempo di visitare il MAN di Nuoro e, al rientro, il pozzo di Santa Cristina. Abbiamo salutato Dragos subito dopo aver visitato il mercatino delle pulci di Cagliari, una bellissima mattina di sole di fine novembre. L’avventura de “I giardini possibili” è cominciata!